Il premio Mogensen-Bruno è instituito dalla Dotoressa Else Mogensen in collaborazione con la famiglia Bruno, perché è importante leggere e conoscere bene quello gli scrittori e le scrittrici del nostro paese hanno scritto e scrivevano perché il loro modo di pensare è anche parte del nostro patrimonio, il loro ambiente è anche il nostro. L'identità di Bruno si formò ad Ascea mentre cresceva qui, e leggendo le sue opere, si riconoscono emozioni comuni e modi di pensare che sono stati distillati da una grande mente.

Francesco Bruno

Francesco Bruno
Nato ad Ascea nel 1899, Francesco Bruno era uno dei più importanti e famosi giornalisti e critici letterari di Novecento. Bruno ha scritto narrative con relazione ad Ascea e Cilento, però sopratutto ha scritto molto sulla cultura meridionale con le radici di Elea/Velia, e lui ha tracciato la nostra cultura dall'antichità via Giambattista Vico e il grande scolaro di lingua e letteratura italiana, Francesco De Sanctis, a Benedetto Croce. Ha scritto di Alfonso Gatto, un poeta favorito da molti cilentani, e sulle opere di molti altri scrittori e personalitè letterari del mezzogiorno.

tirsdag den 4. juli 2017

PREMIO MOGENSEN-BRUNO – 8^ EDIZIONE 2017




PREMIO MOGENSEN-BRUNO – VIII^ EDIZIONE

    Il Premio Mogensen – Bruno è giunto nel 2017 all’OTTAVA edizione. Ideato e realizzato dalla compianta dott.ssa Else Mogensen nel 2010, ha visto negli anni avvicendarsi alla vittoria i migliori alunni delle classi terze dell’Istituto Comprensivo ‘Parmenide di Elea’. Ricordiamo fra questi ad esempio Mattia Capitani, Natalia Graziuso, Angela D’Angelo, tutti alunni che si sono distinti nel tempo e continuano a farlo negli studi Superiori e universitari, e ricordiamo anche il vincitore dello scorso anno Sovan Petru Bogdan.
    Quest’anno il regolamento prevedeva la stesura di un tema basato su una problematica storico-sociale della nostra terra, anche attingendo liberamente ai testi di Francesco Bruno e Else Mogensen.
I dieci temi pervenuti si sono imposti all’attenzione della Commissione per gli spunti originali e per l’impegno dimostrato nello studio delle problematiche analizzate.
Prima della premiazione la coordinatrice del Premio, prof.ssa Maddalena De Leo, ha passato la parola alla dott.ssa Vincenzina Esposito, responsabile della biblioteca del Palazzo Alario, che ha brevemente informato i presenti della recente inaugurazione del Fondo Librario Francesco e Elio Bruno, con oltre tremila libri donati dalla famiglia Bruno.
    Si è quindi passati alla premiazione.
E’ stato consegnato un attestato per l’entusiastica partecipazione e l’impegno nello studio della storia del territorio, più un libro di Francesco Bruno ai seguenti alunni:
GIUSEPPE DE LUCA 3^ C
MARZIA PICA 3^ C
ANNAMARIA RUSSO 3^ C
NELLO GERBASIO 3^ C
CHIARA MIRANDA 3^ A
MAURO D’ANGIOLILLO 3^ A
FEDERICA GRAZIUSO 3^ B
ANASTASIA DI CANDIA 3^ B

Il 3° Premio, consistente in 50 euro + pergamena e libri di Francesco Bruno e Else Mogensen, è stato consegnato dalla prof.ssa Novi Bruno all’alunna Rosanna Fontana della classe 3^ B.
Motivazione:
    L’elaborato, dal titolo: ‘Il Cilento nel secondo dopoguerra’ esamina con attenzione e consapevole informazione il tema trattato, anche con partecipazione emotiva nella speranza di una soluzione futura dei problemi che hanno afflitto il territorio cilentano sotto il profilo socioeconomico. Risulta corretto per forma, morfosintassi e lessico.


Non c’è stato quest’anno un secondo premio in quanto la Commissione all’unanimità, in base alla qualità dei temi presentati, non ha ritenuto di assegnarlo, per cui si è passati al primo Premio.
Il 1° Premio, consistente in 100 euro + pergamena e libri di Francesco Bruno e Else Mogensen, è stato consegnato dal Prof. Lars Aagaard-Mogensen all’alunna Roberta Di Donato della classe 3^ A.
Motivazione:
    L’elaborato evoca con suggestiva partecipazione emotiva il dramma dell’emigrazione e del profondo attaccamento alle radici nella diacronia e nella sincronia, secondo quanto previsto dalla traccia. Si evince probabilmente l’eco di racconti ascoltati di esperienze dolorose e drammatiche, l’espressione è corretta e scorrevole. Molto suggestiva e coerente la citazione finale tratta dal romanzo ‘Paese di eriche e ginestre’ di Francesco Bruno.
Maddalena De Leo


Temi vincitori 2017

ROBERTA DI DONATO

1° Classificato

13 settembre 1899
Una lacrima rigò il viso di quel povero giovane, mentre lui e la sua famiglia guardavano i treni sferragliare rumorosamente sulle rotaie, tanto da rompere i timpani. Sua moglie guardava i loro bambini piangere, mentre pensava al futuro, cercando di essere positiva e rimembrando nella sua mente tutti i momenti più belli e significativi passati con il marito, ora costretto ad abbandonare la sua terra spinto dalla povertà che da tempo assaliva la famiglia Liguori. Cesare, di soli 5 anni, non riusciva a capire bene cosa stesse succedendo in quel momento, però sapeva che il padre sarebbe tornato molto presto, o almeno così affermava la mamma. Invece Renzo, di 13, era più consapevole e le sue lacrime scorrevano veloci sul volto mentre gli occhi si arrossavano sempre di più.
In quel ventoso giorno di settembre del 1899 molte famiglie si ritrovarono costrette a partire per gli Stati Uniti, in cerca di fortuna e di una vita più dignitosa. Insieme a loro, il treno avrebbe trasportato Attilio fino alla nave su cui avrebbe viaggiato, consapevole di star lasciando la sua famiglia e la sua terra, il Cilento, da sempre amata. Salutò sua moglie Bianca, che non aveva neanche il coraggio di guardarlo senza crollare, e i suoi adorati figli. Cesare chiese quando sarebbe tornato e lui rispose che si trattava solo di un viaggio per esplorare nuove terre, rassicurando così il povero bambino che si rilassò, pensando a quanto sarebbe stato bello per il padre vedere cose nuove e conoscere tante persone diverse. Renzo era positivo, in cuor suo sapeva che sarebbe tornato, e nell'attesa si sarebbe intrattenuto con le lettere che Attilio aveva promesso di spedire spesso ai figli, per raccontare la sua vita negli Stati Uniti.
Il conducente annunciò la partenza del treno e l'uomo, sconsolato, iniziò ad incamminarsi verso il suo vagone. Prima di entrare si girò e diede uno sguardo alla sua famiglia, promettendo a se stesso che l’avrebbe rivista. Salì sul vagone e prese un posto vicino al finestrino così da poter guardare i suoi familiari, sperando che non fosse l'ultima volta. Bianca si asciugava le lacrime con un fazzoletto, disperata, mentre Cesare lo salutava con la mano e Renzo lo fissava con gli occhi della speranza. Poi il treno partì.
Attilio ripensò alla sua terra, dove era nato, e alle sensazioni profonde che gli aveva dato vivere in quel posto così leggiadro e sorprendentemente spensierato, nonostante la miseria e la povertà che incombevano su di lui. Ripensò a quando la mattina si svegliava e apriva le finestre della sua piccola casa, godendo del panorama sul mare che nel tempo libero si dilettava a dipingere. Ripensò a quando durante la primavera l'odore dei fiori era talmente intenso da ripulire ogni traccia di dolore perturbante nei suoi pensieri, e al cinguettio delle rondini sempre presenti. E a quando, durante l'autunno, vedeva le foglie cadere leggiadre dagli alberi sfiorando il suolo. Pensò che tutte queste emozioni e la sua famiglia gli sarebbero mancate, però allo stesso tempo lo consolava la speranza di trovar fortuna. E così, con questi pensieri che scorrevano nella sua mente, si ritrovò sulla nave che lo avrebbe portato in un posto dove non era mai stato, con persone che non aveva mai visto, cose che i suoi occhi non avevano mai potuto osservare prima d'ora.
Arrivato negli Stati Uniti Attilio era spaesato e non sapeva dove andare. Capitò però una cosa che lo sbalordì e che lo fece rilassare: un uomo, appena sceso dalla nave, gli chiese se anche lui era andato lì per cercare lavoro. Il giovane sperò subito nella nascita di un'amicizia, così da non dover affrontare da solo la nuova avventura. E allora rispose di sì e l'altro uomo (chiamato Giulio) gli sorrise innocentemente, forse contento anche lui per gli stessi motivi di Attilio. Fu così che i due iniziarono a girovagare per la terra sconosciuta portando sempre dentro di loro la speranza, che in quel momento sembrava l'unica risorsa. Dormirono sotto un ponte, con il freddo che minacciava di congelarli e il vento che soffiava forte sulle loro teste, mentre l'unica cosa che li copriva era una coperta trovata per pura fortuna al centro di una via. Il giorno seguente, ancora scossi da quel freddo della sera prima Giulio e Attilio si misero in cammino molto presto, con l'intento ti trovar fortuna. Ma nulla, quella giornata era stata completamente sprecata perché nessuna fabbrica aveva bisogno di dipendenti e nessuno sembrava interessarsi alle loro proposte. La speranza stava per abbandonarli quando, ad un certo punto, una signora che abitava in città li vide e, provando pietà per i due, si offrì di ospitarli nella sua dimora in attesa di trovare un lavoro. Questo gesto fece sentire meglio Attilio, distrutto da tutte quelle porte chiuse in faccia, e quando la sera si mise nel letto iniziò a riflettere su tutto quello che gli stava capitando: pensò alla sua famiglia, chissà cosa stavano facendo in quel momento sua moglie e i suoi amati figli... avrebbe tanto voluto essere lì con loro; magari raccontando una storia al piccolo Cesare per farlo addormentare, come aveva sempre fatto, e dando un bacio della buonanotte a Renzo e a Bianca, la sua amata moglie. Pensò che l'indomani gli avrebbe spedito una lettera e nel frattempo si addormentò.
Passò una settimana e lui e Giulio, come ogni singolo giorno, si misero in cammino; ancora una volta non trovarono una buona accoglienza, nessuno ascoltava o prendeva in considerazione le loro proposte, finché non scorsero un'altra fabbrica poco distante. Decisero di andarci e, con loro grande sorpresa ed emozione, lì accettarono di prenderli al lavoro. Felice come non mai Attilio corse a casa per scrivere una lettera alla sua famiglia, informandola della gioiosa notizia e chiedendo di raggiungerlo negli Stati Uniti. La felicità di quel momento non si poteva descrivere, Attilio era completamente senza parole. Finalmente avrebbe portato avanti la sua famiglia egregiamente e senza tutti i problemi economici che c'erano stati fino a quel momento. Lui voleva solo il bene per i suoi figli e sua moglie: farli vivere in pace e serenità era l'unica cosa che desiderava. Questo bene era così forte ed intenso che purtroppo vinceva anche la voglia di tornare nel suo paese, il Cilento. Attilio sapeva bene che a quel punto non sarebbe più tornato nella sua terra e, nella felicità, si ritagliò anche un momento per ricordare tutto quello che aveva abbandonato. Le sue lacrime per il luogo in cui aveva vissuto lo accompagnarono, suo malgrado, per tutta la vita.

22 febbraio 2017
Benjamin stava guardando pensieroso fuori dalla finestra, quel post su Facebook di una sua zia italiana lo stava facendo riflettere. Era riuscito a scoprire la storia dei suoi lontani antenati che dall’Italia erano stati costretti ad emigrare lì dove si trovava ora, la maestosa New York. Aveva il desiderio di scoprire la bellezza della terra dei suoi predecessori, anche perché era un ragazzo che aveva sempre amato viaggiare per il mondo. Andò nella camera di suo fratello Alexander e gli chiese di accompagnarlo in questa sua avventura; lui accettò volentieri e i due giovani, Benjamin di 24 anni e Alexander di poco più, con la voglia di far nuove esperienze, prenotarono online un viaggio per andare nel Cilento, splendido luogo che non avevano mai visitato. Benjamin si organizzò con la loro lontana zia, che decise di ospitarli con innato entusiasmo. Presero l'aereo una settimana dopo e atterrarono dopo otto ore di volo; un viaggio che per qualsiasi altra persona sarebbe stato pesante, ma che a quei due giovani, con la voglia di disseppellire un pezzo della loro storia, sembrava essere durato solo un’ora.
Arrivati nel Cilento rimasero affascinati dalla natura incontaminata del luogo e dalla sua bellissima semplicità. Benjamin si guardava intorno con stupore, tutto quello che c'era in quel bellissimo posto lo faceva rimanere ad occhi aperti, rilassando i suoi muscoli e le sue membra provati dalla frenesia della città. Arrivato a casa degli zii scoprì che i cugini stavano per partire e che, come gli spiegarono, sarebbero andati negli Stati Uniti per completare gli studi e cercare lavoro. Colpiti i due ragazzi pensarono che quell'avvenimento sembrava un ripetersi della storia dei loro antenati e rimasero sbalorditi di come, a volte, le problematiche sociali del passato ritornano anche nel presente.
Benjamin si sedette sul divano in stoffa della zia e, incuriosito, chiese ogni particolare degli eventi che avevano spinto i suoi antichi predecessori a cambiare Stato e, a quel punto, vita. Anche se non capiva ogni parola conosceva abbastanza l’italiano per seguire quel racconto così coinvolgente, che suscitò dentro di lui un mare di diverse sensazioni. Più il tempo passava e sempre più profondamente si sentiva catturato da tutto quello che la terra cilentana gli offriva, immaginando di osservare ogni cosa con gli occhi di Attilio che non aveva potuto farvi ritorno. Benjamin sentiva che Attilio, insieme a Bianca e ai figli, avrebbe meritato di vedere la sua famiglia vivere e crescere nel posto che tutti loro avevano così tanto amato e continuato a sognare per tutta la vita; a poco a poco cominciò a prendere in considerazione l'idea di trasferirsi definitivamente nel Cilento, con la sensazione di dare finalmente soddisfazione a un antico desiderio e di riparare una vecchia ingiustizia. L'amore e il rimpianto per quel bellissimo luogo era, infatti, rimasto nel cuore di tutti, trasmesso di generazione in generazione, perché "l'uomo ritorna nella terra in cui nasce, pensa, crede ed ama, malgrado ogni avversità; e questo slancio naturale è anche segno della sua vocazione umana, cristiana e letteraria." Perché se l'uomo non può stare nella sua terra, costretto da qualcosa che potrebbe distruggerlo, in cuor suo non abbandonerà mai il posto da cui ha avuto inizio la sua esistenza.





Rosanna Fontana

3° classificato

IL CILENTO NEL SECONDO DOPOGUERRA

     Nell’analizzare le problematiche socio-economiche del secondo dopoguerra, mi ha affascinato e colpito l’analisi della questione meridionale e soprattutto della mia terra, il Cilento.
     Con grande rammarico, nel corso del mio lavoro, sono apparse evidenti, sin da subito, le sostanziali differenze tra Nord e Sud, l’arretratezza, l’immobilismo, la povertà che purtroppo caratterizzano il Meridione e il Cilento, terra di grandi contraddizioni, affascinante, ricca di cultura, ma dove il progresso ha sempre faticato ad attecchire e dove l’uomo ha fatto ben poco per valorizzarla.
     Al termine del secondo conflitto mondiale, infatti, il Cilento era invischiato in profonde e laceranti contraddizioni interne, aggravate ed ingigantite dagli eventi bellici e dalle sue tragiche conseguenze. La collettività era consapevole della situazione di arretratezza e sottosviluppo del Cilento. In una realtà essenzialmente rurale, a soffrire di tale stato era soprattutto la campagna. Due erano gli aspetti sostanzialmente negativi nel mondo contadino cilentano: la ridotta estensione dell’azienda agricola individuale e l’eccessivo frazionamento della proprietà.
     Per quanto riguarda il primo aspetto, si deve specificare che l’attività agricola cilentana veniva svolta su terreni di limitata estensione, da non consentire di produrre per i mercati, ma solo per il fabbisogno familiare. Solo pochi proprietari riuscivano a sfruttare i terreni per la commercializzazione dei prodotti ed erano coloro che disponevano di proprietà medio o medio alta o di più consistenti corpi distinti, dalla cui produzione unitaria ricavavano la quantità di prodotti da immettere sui mercati.
     L’altro aspetto negativo l’eccessivo frazionamento della proprietà, piccola, media o grande, era che i fondi che la costituivano non erano unici ed omogenei, ma dislocati in più terreni in zone diverse. I terreni frazionati e disomogenei non potevano essere adibiti ad un’unica consistente produzione specializzata da commercializzare con reinvestimento degli utili in un processo di continuo miglioramento dell’azienda, ma erano sufficienti a soddisfare solo il fabbisogno familiare. Questo mondo già precario e contraddittorio, era stato sconvolto ulteriormente dalla guerra, perché la campagna era rimasta per molto tempo abbandonata, perché uomini validi si erano arruolati, perché la produzione del grano, elemento primario ed essenziale per la nutrizione della gente era in crisi, perché i reduci contadini, così come racconta un proprietario di Rutino, non volevano più lavorare la terra sotto padrone e preferivano lasciare il paese.
     Vi furono vari interventi legislativi per favorire la ripresa produttiva agricola, l’Allied Military Goverment per creare una disciplina uniforme dei salari fissò la paga giornaliera di lire cinquanta sia per i braccianti che per gli operai, somma mai raggiunta nelle paghe salariali, ma che risultava irrisoria, infatti, i beni di prima necessità scarseggiavano e quei pochi che si trovavano sui mercati avevano prezzi esorbitanti come il pane, la pasta, la farina, i legumi.
     Nel mondo agrario vi dovevano essere interventi determinanti ed urgenti, per riequilibrare una situazione di sperequazione fin troppo accentuata e per dare respiro ad una classe sociale ormai alla deriva. Nel luglio del 1944, il Governo decise che ai coltivatori che lavoravano su fondi altrui spettava la metà del prezzo del grano prodotto, così come era stato determinato in precedenza per il versamento ai granai, mentre l’altra metà andava al proprietario del fondo quale corrispettivo del canone in natura da corrispondere.
     Un provvedimento che nel Cilento, non ebbe alcun pratico risvolto, prima di tutto perché la produzione agraria non era più tale da consentire ai contadini, nonostante l’introito della metà del prezzo riconosciuto, guadagni di qualche consistenza e poi, era più conveniente portare il grano al mercato nero, ove il prezzo era di gran lunga più remunerativo in relazione a quello pagato dallo Stato. Altri provvedimenti, dell’ottobre dello stesso anno, che disciplinavano alcuni contratti agrari non ebbero applicazione, nonostante fossero rivoluzionari. Rivoluzionari perché, per la prima volta, si riconosceva a chi lavorava la terra il diritto di percepire quote superiori.
     Nel Cilento non sortirono alcun effetto e i proprietari continuavano unilateralmente ad imporre patti, condizioni e salari a seconda dei propri esclusivi interessi. L’economia locale continuava ad essere gestita dai soliti proprietari e notabili del paese, che condizionavano pesantemente la vita dei ceti subalterni. I contadini non disponevano del minimo indispensabile per vivere, pur esistendo terre padronali e demaniali incolte e non utilizzate. Sempre nel mese di ottobre, il Governo aveva stabilito la concessione di terreni di proprietà di privati o di Enti pubblici, risultanti non coltivati o insufficientemente coltivati ad associazioni di contadini regolarmente costituite in cooperative o in altri Enti, contestualmente stabilendo che le concessioni dovessero essere fatte nei termini stabiliti dalla legge.
     Nel Cilento anche questo provvedimento non ebbe fortuna, perché il fenomeno associativo tra contadini era sconosciuto e poi vi era la caparbia resistenza dei proprietari che avversavano in ogni modo una più equa distribuzione della proprietà, eppure quella disposizione poteva costituire una spinta psicologica per i contadini per vedere legittimata la loro azione di rivendicazione delle terre.
     Ancora una volta, il Cilento risultava sconfitto e non riesce a decollare.
     Per questa situazione crebbe la tensione sociale che sfociò in veri atti di ribellismo. I contadini occupano le terre, a conferma del loro diritto al lavoro, alla vita, alla dignità di uomini liberi. Il movimento si verificò a Vallo e Roccagloriosa e poi si estese a Cannalonga, Novi Velia, Felitto, Camerota, Trentinara, Capaccio, Castel San Lorenzo, Albanella, Laurino. Il Cilento poteva uscire dall’atavico sottosviluppo, come afferma lo studioso Pugliese, solo in presenza di un trapasso da chi troppo ha e non può o non sa condurre, a chi su quella terra lavora e suda per una malcerta e mal retribuita mercede.
     Tutto il mondo politico conveniva sulla necessità di una riforma nel modo agrario, ritenuto il fulcro dell’economia mondiale, da più parti si afferma che i contadini devono avere la terra e la devono avere attraverso riforme legali.
     Ciò viene evidenziato nel dicembre del 1947 nel Congresso regionale della terra che si svolgeva ad Eboli e veniva ribadito anche dal Ministro dell’Agricoltura che nel maggio del 1948, riteneva essenziale la riforma agraria. Ben presto, però, ci fu la reazione dei proprietari terrieri, che presentarono un controprogetto di riforma, a difesa degli interessi agrari e avevano proposto una soluzione che prescindeva da qualsiasi espropriazione della terra ai proprietari.
     La tensione è altissima, si verificano i primi scioperi dei lavoratori, manifestazioni in piazza a sostegno delle lotte operaie e delle rivendicazioni dei contadini e il 2 giugno del 1948 si ebbe uno sciopero generale, in tutto il salernitano, contro il patronato locale. Nell’anno seguente si susseguono manifestazioni di protesta e occupazioni di terre in tutto il Meridione, mentre nel Salernitano la lotta divenne aspra e cruenta a Capaccio, Roccadaspide, Trentinara, Albanella.
     Il Governo non poteva più indugiare e così il 17 marzo del 1950, viene presentato il progetto di riforma la cosiddetta “legge stralcio” approvata ad ottobre, che in alcune zone ottenne apprezzabili risultati, ma non nel Cilento. La situazione Cilentana poteva essere risolta, se avesse avuto seguito una relazione parlamentare del settembre del 1950, che doveva dare slancio alla produzione agricola, attraverso una più moderna tecnica agraria e riducendo i costi di produzione, promuovendo con l’aiuto dello Stato le opere di bonifica, di irrigazione e di trasformazione fondiarie, proteggendo e difendendo le economie del piccolo e medio contadino coltivatore diretto, favorendo la cooperazione agricola, riformando i contratti agrari.
     Tutto ciò non avvenne, i pochi grandi proprietari terrieri locali continuarono la consolidata politica assenteista che spingeva sempre più le loro terre nell’improduttività e nell’abbandono, la piccola proprietà fondiaria eccessivamente polverizzata, non soddisfaceva neanche il fabbisogno familiare a ciò si aggiunga l’assenteismo, anche dello Stato, che non fornì supporti validi quali mezzi, opere, investimenti necessari al miglioramento delle precarie condizioni dei terreni, tutto ebbe un ruolo fondamentale, insieme al mancato sviluppo della cooperazione agricola.
     Ancora una volta il Cilento aveva perso una grande occasione.
     Precaria e delicata era anche la situazione dell’artigianato che non aveva mai assunto un ruolo di primaria importanza, infatti l’artigianato nel Cilento essendo espressione di una economia povera e chiusa, a carattere essenzialmente agricolo, era destinato a circuiti che riflettevano quel tipo di società.
     L’attività industriale, invece, sul territorio era pressochè inesistente.
     In questo contesto dove l’agricoltura e l’artigianato erano in crisi, l’industria inesistente, i lavori pubblici insufficienti e comunque non in grado di creare un valido supporto all’occupazione, ai Cilentani non restava che seguire l’esempio dei padri e abbandonare la propria terra per cercare lontano, ciò che in patria, era loro negato.
     Al termine di questa disamina delle cause socio-economiche che hanno determinato il sotto sviluppo del Meridione e del Cilento, voglio concludere con un augurio che in futuro nessuno studente guardandosi indietro, possa più discorrere di mancate occasioni del Cilento, ma che esso diventi un grande centro di sviluppo economico per tutto il Meridione e nessuno mai possa parlare più, come ha fatto giustamente in passato, un illustre compaesano, Francesco Bruno, di impossibilità di progresso della mia bellissima Terra!!!