Gli studenti dovranno comporre un testo sul tema: “La cultura meridionale a Napoli e Salerno nella prima metà del Novecento”; bibliografia 1) Elio Bruno: Letteratura a Napoli: dal Rinascimento al Novecento, Guida, e 2) Francesco Bruno, Lettera da Salerno, Plectica. Gli studenti sono anche liberi di consultare e trovare ispirazione per l'articolo in opere di Francesco Bruno e di Else Mogensen.
fredag den 20. juli 2018
Temi vincitori 2018
La
cultura meridionale a Napoli e Salerno nella prima metà del
Novecento.
DOMENICO
CIOCIANO
1° Classificato
“Chi ha
detto che si vive una volta sola? Confondiamo l’oblio con la morte”
Chissà se
Francesco Bruno, autore di questa citazione, avrebbe mai immaginato
di diventare proprio lui “immortale”? Questo non ci è dato
sapere. Sappiamo però, che egli vive e rivive una, mille, infinite
volte attraverso i suoi testi, le sue poesie e i suoi libri che
ancora oggi, a trentasei anni dalla sua morte, stimolano la nostra
fantasia, toccano i nostri cuori e invitano a riflettere. La sua
“arte” ha caratterizzato la cultura meridionale dal primo
Novecento in una Napoli che aveva vissuto il dramma del primo
conflitto mondiale con il conseguente dopoguerra difficile con
amarezze e delusioni, con l’incomprensibile tragedia della spagnola
e masse contadine impoverite dall’inflazione, con il triste esodo
dell’emigrazione. Poi
la
dittatura dove il popolo era costretto a soffrire in silenzio i colpi
bassi del potere, ma diventa protagonista delle famose Quattro
Giornate di Napoli dove il giovanissimo Gennarino di appena dodici
anni perde la vita in nome della Libertà e Giustizia. Nei testi
letti Letteratura
a Napoli dal Rinascimento al Novecento, Dentro Napoli,
F.
Bruno e la letteratura meridionale
si evince che Napoli è un vero e proprio crocevia della vita e della
cultura italiana, luogo della lacerazione e della violenza, ma anche
della speranza; da Napoli si vuole fuggire, ma a Napoli si vuole
ritornare.
La prima che
sicuramente pote’ intuire le reali potenzialità del piccolo
Francesco, fu la sua insegnante della scuola primaria: Elodie. Fu lei
a spronarlo e ad avvicinarlo al mondo del giornalismo leggendogli
anche gli articoli della rivista Diritti
e Bruno stesso, dopo una serie di fortunate combinazioni, ne divenne
stimato collaboratore con i suoi articoli acuti, intelligenti e assai
profondi. Indimenticabile la sua critica letteraria sul romanzo
Qualcuno
bussa alla porta
dell’allora sconosciuta Elsa Morante. La critica fu positiva …
D’altronde, come non riconoscere alla Morante il suo indubbio,
spettacolare talento?
Il talento non
mancava di certo neanche a Francesco Bruno che, è proprio il caso di
dirlo, aveva una marcia in più perchè trasferitosi a Salerno, trovò
quasi da subito spazio nei gruppi di giovani intellettuali
pubblicando il suo primo libro, a soli venticinque anni e la sua
passione per il giornalismo lo portò a collaborare con varie testate
giornalistiche. Finalmente arrivava un nuovo “talento” capace di
rivoluzionare l’ambiente culturale salernitano arrivando
addirittura a dirigere un settimanale di politica, cultura e
attualità, chiamato “Il Progresso”. E mai fu nome più
azzeccato. Infatti, le sue idee erano “progressiste”, la cultura
doveva essere il punto di partenza per la risoluzione di tanti
problemi che martoriavano il Sud. Non a caso Francesco Bruno ideò
una rubrica di corrispondenza con i lettori e la firmò con lo
pseudonimo di ‘Mirabeau’ che solo in pochi avrebbero saputo
collegare ad Apollinaire. Inoltre iniziò ad usare il formato tabloid
e introdusse la vignetta. Per l’Italia fu una rarità assoluta
utilizzata, inutile dirlo, fin nei tempi attuali. Negli anni
successivi, in una città che ad immaginarla oggi sembrava quasi
magica, Salerno era la cornice di un brulicante via vai di giovani
talentuosi. Bruno fu capace, con una certezza invidiabile, di
individuare i più promettenti. Quando, infatti, fu avvicinato dal
poeta Alfonso Gatto, per una consulenza e valutazione dei suoi
lavori, Bruno comprese subito di trovarsi di fronte ad un’artista
davvero speciale. Ci fu un bel legame duraturo tra questi. Infatti,
nel corso della vita, si incrociarono più volte e la stima reciproca
rimase immutata. Forse perché fra amanti della letteratura e poesia
ci si capisce così, senza troppe parole. Nonostante i tanti
movimenti intellettuali salernitani, che Bruno trovò estremamente
stimolanti, egli decise di trasferirsi a Napoli per un lavoro presso
un quotidiano. Salerno però gli rimase nel cuore, come tutti i
grandi amori.
A Napoli la
sua carriera come critico, giornalista decollò. Scriveva per ‘Il
Mattino’, ‘Il Giorno’ e tanti altri quotidiani. Restò però
sempre umile, “alla mano” e disponibile verso tutti. Tornava
spesso ad Ascea e varie sono le sue opere dedicate proprio al suo
paese natio. È d’obbligo menzionarne una, Paese
di eriche e ginestre,
poiché si tratta della sua ultima opera. Per comprendere a pieno il
movimento artistico e letterario che Francesco Bruno seppe catturare
su foglio con maestria nella sua raccolta La
Scapigliatura napoletana e meridionale,
è d’obbligo evidenziare il suo talento perché ha saputo
rappresentare in modo affascinante il piccolo mondo parallelo degli
artisti che si raccoglievano attorno a lui. È affascinante lo
scambio di idee, la lettura collettiva, la definizione
dell’ispirazione che ci può essere stata solo tra persone che
condividono una passione talmente arguta da riempire non solo la
mente, ma anche il cuore e forse persino l’anima. Ed è così la
Napoli di Francesco Bruno: pulsante, bizzarra, magica e piena zeppa
di artisti. Lo scrittore afferma nell’introduzione del suo libro
che spesso incontra gli scrittori del suo Sud che sembravano avvolti
in un “alone favoloso e leggendario.” Non è semplicemente
sublime questa immagine che Bruno ha saputo trasmettere? Quanto amore
per questo microcosmo artistico! Quanta passione per la sua terra,
tanto da diventare lui stesso un punto di riferimento per tanti
artisti. Volendo ripercorrere le tappe della letteratura napoletana
attraverso le profonde osservazioni di Bruno, è giusto soffermarsi
su Benedetto Croce, trasferitosi a Napoli, dove l’impatto con la
città fu favorevole e ben presto casa sua fu frequentata da
giornalisti, pittori, poeti, archivisti, antiquari e librai. E certo
non poteva mancare Francesco Bruno. L’incontro con Croce fu di
grande valore intellettuale per entrambi, ma Bruno seppe rimanere
sempre obiettivo ed equilibrato nei suoi giudizi sul filosofo.
Infatti, nei confronti della letteratura napoletana Croce diede un
contributo notevole e F. Bruno l’ha sempre saputo riconoscere. Un
altro letterato vissuto a Napoli fu Fausto Nicolini che svolse la sua
attività letteraria e giornalistica nella città partenopea, ma a
differenza di Croce, che si concentrava sulla filosofia dello
spirito, Nicolini si rivelò un biografo drammatico. Sapeva catturare
ampi affreschi storici e cercava di dare risalto ad aspetti
biografici. Francesco Bruno sensibile e profondo quando raccontò del
suo incontro personale con Nicolini si commosse perchè lo trovò in
una grande stanza al freddo, tra carte e fogli, coperto da un basco
nero. Bruno lo paragonò a Sainte-Beuve, avendolo visto in fotografia
in atteggiamento e posa simile a Nicolini. È d’obbligo citare
anche Gino Doria che ha indirizzato il suo talento nella descrizione,
nella contemplazione della sua città: Napoli. In molti dei suoi
scritti la città funge da protagonista. Come Croce, anche egli
sguazza nelle tradizioni napoletane, descrivendone con misura,
cultura e civiltà gli aspetti più vivi. E Benedetto Croce, da
grande maestro ha saputo insegnare tutto questo ai suoi allievi, di
cui anche Doria fece parte. Gli allievi probabilmente si sentirono
molto vicini al loro maestro perché, come loro, lui era un
autodidatta. Insegnava attraverso le frasi più belle, quanto Napoli
potesse essere vecchia e sempre nuova, pensiero che fu condiviso
anche da Francesco Bruno. Il capitolo non si può chiudere senza
soffermarsi brevemente anche su Alberto Consiglio, Edmondo Cione e
Lorenzo Giusso. Tutti e tre erano in qualche modo legati al pensiero
crociano. Il più apprezzato da Bruno però fu proprio Giusso, che
aveva profonda conoscenza delle lingue straniere. Questo gli fu di
grande aiuto nello studio e nella traduzione di saggi di autori
vicini al suo pensiero.
Napoli non è
solo questo, ma anche la musica napoletana è cultura, arte, poesia,
storia le cui origini risalgono al tredicesimo secolo quando gli
studenti dell’università Federico II creavano delle ballate che si
ispiravano alle differenze tra le bellezze del paesaggio e le
difficoltà della vita. Poi, dopo secoli di splendide canzoni e
ballate ci fu una svolta: la propagazione ed il successo della musica
napoletana. Questo cambiamento avvenne sin dagli inizi del Novecento
e cantanti come Renato Carosone e Roberto Murolo furono i maggiori
interpreti di questo genere musicale. A cavallo del primo Novecento
comparve la figura di Enrico Caruso, uno dei tenori più famosi. Egli
proprio come Murolo e Carosone seppe comporre canzoni che ancora oggi
si cantano fra le vie di Napoli e forse di tutto il mondo. Dietro le
opere di costoro si cela un difficilissimo lavoro che consiste nel
coniugare il testo della canzone alla musicalità delle parole spesso
espresse in dialetto per avere una maggiore autenticità. Proprio per
questo si può dire che ci fu una fusione tra la canzone napoletana e
la letteratura del meridione. Per me la musica napoletana è vita…
troviamo in essa un miscuglio fra quotidianità, poesia, sentimento,
ma anche storia come nella canzone “Munasterio e Santa Chiara”
dove emerge il desiderio di tornare a Napoli dopo la guerra e allo
stesso tempo si percepisce la paura di trovare una città distrutta
dai bombardamenti. Però non fu solo la canzone napoletana a
caratterizzare la cultura meridionale, ma ci furono anche teatro e
cinema che svolsero un ruolo fondamentale nel raccontare storie e
magari lanciare un messaggio di originalità. Edoardo De Filippo fu
uno degli attori più importanti, ma anche uno degli artisti più
incisivi del Novecento conosciuto in tutto il mondo per le sue
rappresentazioni teatrali e per la sua innata bravura. Le sue opere
celebri Natale
in casa Cupiello
e Filomena
Marturano
in cui De Filippo fu davvero un maestro perché con maestria ed
ironia ha saputo trasmettere la quotidianità della sua bella Napoli.
E tornando a F. Bruno, questi come lui ha rivolto i suoi ultimi
pensieri ad Ascea con il testo Paese
di eriche e ginestre.
Ascea rivolge
eternamente il suo profondo rispetto ad un uomo che ha reso e rende
tuttora i suoi compaesani orgogliosi di condividere le origini.
Doveroso è stato dare il suo nome alla scuola primaria di Ascea.
L’oblìo non ci sarà mai, finché gli alunni ne conosceranno la
meravigliosa storia. “Così lo voglio ricordare, in bilico tra il
cielo e la terra a sfiorare la macchia mediterranea a lui tanto
cara”.
GIUSEPPE
ANTONIO BEL FIORE
2
° Classificato
Introduzione.
Se
la bellezza dei luoghi affascina viaggiatori e viandanti, è
indiscutibilmente vero che riesce a far vibrare la sensibilità
dell’animo di un artista e poeta ed a creare le giuste premesse per
un moto ispirativo che generi l’opera, l’opera d’arte. Il luogo
si fa musa ispiratrice, si fa soggetto e depositario del culto della
bellezza del moto nuovo e fecondo che saluta ogni rappresentazione
artistica sul nascere, prima che si diffonda nei cuori.
I
paesaggi campani assumono talvolta una bellezza radiosa, nella
luminosità assolata di giornate afose e rumorose, altre volte invece
prendono una bellezza argentata, silenziosa, solitaria. La notte, i
cieli stellati, il silenzioso rumoreggiare del mare placido e
sonnecchiante affascinarono Gabriele D’Annunzio che osservando la
notte stellata appesa sui profili del golfo salernitano, scrisse di
Salerno, versi bellissimi e dolci in cui i profili scuri dei monti
che scendono dolcemente a tuffarsi nel mare, lo definì lunato golfo,
generando l’immagine evocativa di una bellezza illuminata dalla
luce lunare. Bellezza decadente, artistica, poetica.
L’arte
ha soggiornato e soggiorna a Salerno e Napoli e lo fa respirando la
bellezza del paesaggio, l’anima popolare che vi risiede, che si
condensa nelle tradizioni, nelle leggende, nelle quotidiane realtà ,
talvolta superiori all’immaginazione.
Le
ragioni di arte e cultura nel primo Novecento.
Il primo novecento fu periodo storico e sociale di grandi
cambiamenti. Le innovazione scientifiche e tecniche migliorarono le
condizioni di vita e lavoro e generarono una possente capacità di
trasformazione. Non fu solo periodo di razionalismo e progresso, ma
contestualmente fu anche periodo in cui le conquiste generarono ansie
e dubbi, aprendo nuovi percorsi alla sensibilità e dunque alle
ispirazioni artistico-culturale. Vi furono opere realistiche e
naturalistiche, tendenti a rappresentare il vero, il popolare,
l’emarginato, il misero, che proseguirono le idee ed i criteri
culturali affermatisi alla fine del secolo precedente, ma vi furono
anche aspetti tesi a cercare e riprodurre una realtà apparente,
interiore, irrazionale, in cui l’istinto diventa prevalente sulla
ragione. Insomma un rapido ed affollato susseguirsi di movimenti,
correnti artistiche, che propongono antico e moderno in un variegata
composizione di società e storia.
Varietà
che genera contrasti; contrasti che generano trasformazione, spesso
veloce, incontrollata, disordinata; disordine che genera conflitti;
conflitti che generano disgregazione; disgregazione che genera
pessimismo; pessimismo che genera riflessione sulla interiorità ed
il destino dell’uomo nel mondo.
Il
territorio campano, materia d’arte e soggetto di cultura.
Salerno e la sua provincia hanno storia millenaria. L’arte e la
cultura del primo Novecento, se considerate come puri atti di vita,
vera essenza di un’opera che è opera d’arte, realizzano un
connubio tra sentimento e territorio particolarmente intenso. Il
bello ed il vero nell’arte e nella cultura si trovano in molti
opere di artisti italiani che hanno ricevuto ispirazione dai luoghi
campani, salernitani e napoletani in particolare e fin
dall’antichità.
Nel
periodo d’inizio Novecento, tuttavia, gli occhi di Umberto Saba,
una delle più alte espressioni poetiche della letteratura italiana,
osservarono Salerno ed i suoi luoghi. infatti egli svolse servizio di
leva in città nel periodo compreso tra l’aprile del 1907 ed il
settembre del 1908. Un anno intenso nel quale trasse ispirazione per
comporre “Versi militari”, opera che appartiene al patrimonio
morale della nostra cultura per l’alto grido di dolore contro la
guerra, contro tutte le guerre.
Come
già ho affermato fu anche Gabriele D’Annunzio ammaliato dalla
bellezza del golfo salernitano, protagonista nella sua opera
“Merope”, mitologicamente una delle stelle meno luminose figlia
di Atlante, condannata a minor luce per aver ceduto al cuore ed
essersi innamorata di un mortale. D’Annunzio in questa opera
richiama storie e leggende salernitane e narra gli anni meravigliosi
attraversati dalla città in epoca longobarda e normanna.
Salerno
è culla, per nascita, di una delle voci più intense e sofferte
dell’ermetismo italiano, stagione europea della nostra poesia, che
si eleva oltre confine a descrivere il malessere dell’uomo
universale e della sua impossibilità di dialogare con sè stesso e
con la realtà circostante. Alfonso Gatto, salernitano, è poeta
ermetico che alla città dedica versi memorabili condensati nella
nota espressione più volte citata….”Salerno rima d’inverno,
Salerno rima d’eterno….”
L’alba
di questo secolo difficile e complesso saluta anche i lidi
napoletani, che ispirano tra Ottocento e Novecento molti autori
locali che danno vita al filone della poesia e dei testi dialettali
poi diventati anche complementi testuali di celebri romanze, dando
origine alla celeberrima canzone napoletana. Sono infatti questi gli
anni nei quali vengono composti brani a firma di E.A. Mario,
Salvatore Di giacomo, Libero Bovio, Roberto Murolo; più che semplici
testi deputati a seguire la melodia musicale, sono in realtà poesie
ispirate all’amore, ai sentimenti umani, alla quotidianità.
In
questi anni anche Eduardo De Filippo e Totò al principio delle
grandi carriere percorse nel teatro e nel cinema, composero testi che
si ispiravano alla bellezza dei luoghi, ai momenti di cultura e
tradizione mescolati alla quotidianità soprattutto dei ceti
popolari.
Tra
gli autori attuali Luciano de Crescenzo ed Erri De Luca attingono ai
vicoli ed al paesaggio per comporre testi che pervasi da ironia,
umorismo e sensibilità, realizzano suggestivi affreschi narrativi.
Una
esperienza significativa: Matilde Serao.
E’ questo il tempo nel quale si afferma il ruolo, la figura di
Matilde Serao.
Giornalista
e scrittrice, nacque a Patrasso nel 1856. A soli quindici anni, priva
di ogni titolo di studio accademico, sostenne il colloquio di
ingresso in qualità di uditrice presso la Scuola Normale “
Eleonora Pimentel Fonseca “. Dopo un anno Matilde abiurò la
confessione ortodossa per quella cattolica e cominciò a scrivere
brevi articoli destinati all’appendice del Giornale di Napoli, per
poi cominciare a comporre novelle pubblicate, a 22 anni compiuti, con
lo pseudonimo di “Tuffolina“. La prima novella editata fu “Opale“
per le pagine di fondo del quotidiano “Il Mattino“.
Ciquita
è lo pseudonimo che Matilde Serao utilizzò a partire dai ventisei
anni, quando lasciò Napoli per recarsi a Roma dove cominciò a
comporre opere di vario tipo ed articoli, presa da una frenesia del
comporre e dello scrivere che le consentì di assumere un ruolo di
primo piano nei salotti mondani della capitale, diventano un volto
noto conosciuto anche per il suo carattere, la sua fama crescente di
donna determinata ed indipendente, che suscitava ora curiosità ora
ammirazione.
Al
principio, tuttavia, se conquistò fama nei salotti mondani, non ebbe
subito i favori degli ambienti letterari e dei critici in
particolare; basti pensare alle sorti del suo primo libro, che
sebbene la rese famosa tra un pubblico crescente di appassionati non
ebbe recensioni critiche favorevoli, in particolare di Edoardo
Scarfoglio.
Era
un suggestivo preludio che nessuno immaginava doveva condurli a
vivere una intensa ed appassionata storia d’amore, culminata col
matrimonio e la nascita di quattro figli: Antonio, i gemelli Carlo e
Paolo, Michele.
Scarfoglio,
da tempo, accarezzava l’idea di promuovere la fondazione di un
proprio giornale quotidiano, finalizzata a promuovere la crescita
culturale ed artistica. Il suo rapporto e la complicità con la
moglie Matilde doveva favorire questo desiderio e realizzarlo. Nel
1885 fondarono, infatti, il “Corriere di Roma“ che non ebbe vasto
seguito e visse un duro periodo di indebitamento finanziario. Questa
esperienza li indusse ad accettare subito la proposta del banchiere
livornese Matteo Schilizzi che propose alla coppia di tornare a
Napoli e continuare il loro connubio giornalistico nella avventura
della propria testata editoriale. I due accolsero la richiesta ed il
banchiere si accollò le spese debitorie del “Corriere di Roma“
che così riuscì, il 14 novembre 1887, a cessare le pubblicazioni
senza conseguenze giudiziarie per entrambi e con una operazione
editoriale con cui venne fusa tale testata giornalistica al “Corriere
del Mattino“, si riuscì a dare vita ad una nuova testata
editoriale, “Il Corriere di Napoli”, il cui primo numero venne
diffuso il 1° gennaio 1888. Dopo tre anni Scarfoglio e la Serao
lasciarono la testata per fondare un nuovo giornale, a cui venne dato
il nome de “Il Mattino“ il cui primo numero venne pubblicato il
16 marzo 1892, dando inizio alla favola editoriale della principale
testata giornalistica napoletana.
La
storia d’amore tra Scarfoglio e Matilde Serao doveva concludersi a
seguito del tradimento dell’uomo, scoperto e non perdonato. Matilde
si consolò nel ruolo di madre, accogliendo con sé una bambina di
genitori ignoti a cui diede il nome di Paolina. Anche per difficoltà
finanziarie del giornale abbandonò ‘‘Il Mattino’’, nel 1900,
durante una inchiesta che sconvolse la testata. Intanto aveva
cominciato a curare una rubrica letteraria, culturale, ed artistica
che venne pubblicata per 41 anni ininterrotti.
Intanto
nel destino di Matilde ritornava l’amore. Ancora una volta per un
letterato e giornalista. Giuseppe Natale. Con lui Matilde Serao
tornerà a dirigere un nuovo quotidiano, “Il Giorno“, che da
subito si pose in concorrenza con “Il Mattino“.
Alla
morte di Scarfoglio, col quale ormai non viveva più, Matilde Serao
potè sposare Giuseppe Natale che morirà al principio degli anni
Venti, anni nei quali, pur se in solitudine, la Serao proseguì nella
sua attività letteraria e giornalistica svolte con accesa passione.
Non
è un caso che Matilde Serao morì seduta alla sua scrivania, a
Napoli, nel 1927.
Opere
e pensiero di Matilde Serao.
Le
opere di Matilde Serao che ottennero i primi apprezzamenti furono la
raccolta di bozzetti “Dal Vero“ ed il romanzo “Cuore infermo“
che suggellarono la sua adesione, quasi spontanea, alla poetica del
verismo, di cui interpretò profondamente e completamente lo stile e
la poetica letteraria. Le novelle ed i bozzetti erano tipologie di
opere letterarie che meglio si addicevano allo stile ed al tessuto
narrativo della Serao, rispetto ai più estesi romanzi, specialmente
per la sua tendenza a descrivere i sentimenti, le passioni, gli
squilibri personali, le descrizioni degli ambienti e delle
circostanze, dei personaggi, che conservano un carattere secco,
diretto, immediato, da articolo giornalistico più che da testo
narrativo di largo respiro.
Donna
forte, determinata, la Serao ha grande interesse e forte
predisposizione per la caratterizzazione dei personaggi femminili,
descritte come appartenenti ad ambiti e ceti diversi, come ad esempio
nell’opera “Il ventre di Napoli“, in cui vividamente e
partecipativamente la Serao descrive con stile veristico e senza
sovrapposizioni o schermi mistificatori, la dura realtà dei ceti più
umili, in particolare dei bambini appartenenti ad essi, descritti al
cospetto della difficoltà del vivere che si respira nei vicoli
napoletani, in modo endemico e drammatico.
Matilde
non è autrice distratta o distaccata dalle opere e dai suoi
personaggi. La sua compassione, il suo sentimento di comunanza e
partecipazione agli eventi della narrazione è piena e totale. Così
diventa amorevole interprete delle sofferenze e delle speranze del
popolo napoletano che ama e descrive. Devota al giornalismo, prima
che alla prosa, la Serao confessa che “dal primo giorno che ho
scritto, io non ho masi voluto né saputo essere altro che una fedele
ed umile cronista della mia memoria”. Una confessione che esprime
appieno il senso della sua esperienza letteraria, e nel contempo, il
suo amorevole credo al giornalismo militante. Sensazioni queste che
non abbandonerà mai, per nessun amore e per nessuna diversa
vocazione.
E’
cronismo, è amorevole racconto giornalistico della realtà, sebbene
condita dallo scopo narrativo che si eleva a rango letterario, ciò
che la porta a comporre un'altra celebre ed apprezzata sua opera.
“Terno secco” radiografia di alta poesia verista con cui, in
racconto mirabile, descrive la rassegnazione dei ceti più umili e
poveri e della piccola borghesia cittadina che affidano le superstiti
speranza di una vita migliore e senza stenti, alla fortuna nel Gioco
del Lotto. Da questo racconto la Serao trasse anche materia per un
altro celebre scritto, il romanzo “Il paese della cuccagna“.
Segnatamente affreschi di vita quotidiana sono le altre due opere
“Scuola serale femminile” e “Telegrafi dello Stato“, che pure
riscossero un positivo apprezzamento regalando alla memoria comune
due significativi ritratti di vita quotidiana realistica, pur nella
sua lineare semplicità.
In
tal senso è vero capolavoro il racconto lungo “Le virtù di
Checchina“ apoteosi oggettiva delle difficoltà e dei contrasti
esistenti tra la squallore miserevole della piccola borghesia che
anela, invece, al sogno di una vita lussuosa oltremisura. Epico è il
personaggio che la Serao descrive, rendendolo protagonista di
naturalezza e verità.
Diversa
la ispirazione che ha prodotto i romanzi “La conquista di Roma“
(ispirato alle esperienza di vita parlamentare) e “Vita ed
avventure di Riccardo Soanna” in cui la Serao strappa la maschera
ad un certo tipo di giornalismo corrotto.
Nessun
tema è precluso alla fantasia ed all’impegno della Serao; basti
citare l’opera postuma di un testo incompiuto “L’ebbrezza, il
servaggio, la morte“ in cui si confronta con la visione femminile
della dolorosa tematica dell’adulterio, nella Roma
tardo-ottocentesca dannunziana.
La
sua vocazione giornalistica che rendeva la realtà un terreno di
osservazione per comprendere l’evoluzione dei costumi e della
società, viene dalla Serao trasferita nelle pagine delle sue opere,
agganciando così tematiche poetiche e suggestive alla fotografia di
una realtà spesso di sofferenza e dramma, che celebra lo scopo degli
autori veristi. A cui per passione spontanea la Serao viene accostata
nella valutazione della sua vasta produzione letteraria.
Animo
rivoluzionario, innovativo, forte, di spessore culturale notevole
tanto da qualificare una intera esistenza, la Serao è una delle
figure femminili più affascinanti del panorama artistico culturale
nazionale ed internazionale del primo Novecento, e la considerazione
che la questione femminile era ben lontana dall’essere risolta ed
affrontata rende ancora più epica la sua esperienza di donna,
giornalista e letterata. La conferma piena che la forza del cuore e
delle idee, insieme, rendono la vita unica e rara ed ogni associata
esperienza di arte e cultura capace di scandire i ritmi del tempo e
della storia.
BENEDETTA DE LUCA
3 ° Classificato
Nella prima metà del ‘900 le differenze socioeconomiche tra il
Sud e il resto d'Italia rimanevano ancora molto accentuate. Lo
svantaggio accumulato dalle regioni del Sud in rapporto a quelle del
Centro e del Nord era ancora notevole ed era sottolineato dagli
indicatori economici, culturali e civili dello sviluppo. All'inizio
del Novecento i governi presieduti da Giovanni Giolitti furono i
primi ad approvare leggi straordinarie con cui furono finanziati
grandi lavori pubblici in Puglia, a Napoli e in Basilicata, ma che
tuttavia non si rivelarono efficaci alla prova dei fatti;
contemporaneamente, l'emigrazione di milioni di contadini appariva
come la reazione alla miseria delle campagne meridionali. La politica
giolittiana, basata sulle leggi speciali e sulle agevolazioni
pubbliche, inaugurava tuttavia una modalità di intervento dello
stato destinata a riprodursi nei decenni a venire, con risultati
discutibili. A Napoli, in particolare, la politica di Giolitti si
proponeva di imporre un’industrializzazione forzata per cercare di
rimediare alla regressione post unitaria subìta dall’antica
capitale del Mezzogiorno, per risollevarla dalle arretratezze messe
in evidenza dalla questione meridionale e agganciarla al percorso
comune ed unitario dell’Italia intera. Per sopravvivere, dunque,
l’economia napoletana, comincia ad aver bisogno dei capitali
settentrionali, degli investimenti di aziende del Nord, della nascita
di nuovi centri industrializzati, come la zona di Bagnoli, a nord di
Napoli
Nonostante il divario economico e i grandi problemi sociali, nel
Meridione ferveva la vita culturale. Napoli è un importante centro
culturale ed artistico e ciò è evidenziato fortemente anche dalle
pagine di numerosi quotidiani e periodici che i giovani intellettuali
dell’epoca utilizzavano per confrontarsi, pubblicando testi di
varia natura, dalle novelle, ai romanzi a puntate, ai testi teatrali,
alle poesie e alle canzoni.
Una personalità di spicco nella cultura meridionale a Napoli e
Salerno fu senz’altro Francesco Bruno. Questo intellettuale quasi
unificò idealmente Salerno e Napoli perché visse in entrambe le
città, partecipando con passione al dibattito culturale che vi si
svolgeva. Nato ad Ascea nel 1899, Francesco Bruno fu poeta,
giornalista e narratore. Bruno fu anche un critico letterario acuto e
lungimirante: fu il primo a parlare in Italia di un autore come Boris
Pasternak, il primo a leggere le liriche del grande poeta salernitano
Alfonso Gatto ed il primo letterato a dedicare una monografia a
Grazia Deledda e al poeta francese Paul Valéry.
Come narratore Francesco Bruno scrive opere in
cui denuncia le povere condizioni di vita del Mezzogiorno d’Italia.
Il Sud fu per lui fonte di ispirazione e di studio, tanto da essere
considerato uno dei maggiori esponenti della cultura meridionale. Il
suo ultimo romanzo, Paese
di eriche e ginestre,
pubblicato nel 1999 dopo la sua morte è ambientato a Velina
(nome di fantasia che in realtà indica la natìa Ascea). In questo
romanzo, Bruno rivisita leggende, miti e tradizioni popolari che
ormai vanno scomparendo, narrando di un mondo arcaico e bucolico e
della natura ancora incontaminata. Le vicende degli abitanti di
Velina, contadini con le mani callose, pastori di capre, pescatori
bruciati dal sole, donne che infornano il pane e cantano alle
processioni, sembrano proiettarsi in una sorta di età mitologica, al
di fuori del tempo e della storia.
Il romanzo
Paese
di eriche e ginestre, chiude
il cerchio della vicenda artistica di Francesco Bruno perché anche
la sua prima opera, la raccolta di racconti intitolata
Frate Gesù, pubblicata
nel 1924, è ambientata ad Ascea.
La
vita di Francesco Bruno si incrociò anche con quella di un’altra
grande figura della cultura meridionale nei primi del Novecento,
Matilde Serao, da cui fu invitato a collaborare al quotidiano “Il
Giorno”, diretto dalla scrittrice.
La Serao era una donna determinata, ebbe molti riconoscimenti
letterari da parte dei letterati più famosi del tempo, tra i quali
Gabriele D’Annunzio e Benedetto Croce. Donna colta e istruita, non
disdegnava Napoli e il suo popolo, anzi lo amava, e cercava di
descrivere la sua città per denunciare tutte le sofferenze dei
cittadini a causa della difficile situazione socio-economica della
città.
Fino ad allora tutti coloro che avevano scritto di Napoli avevano
messo in evidenza solo gli aspetti positivi. Matilde Serao, invece,
non si limitò a parlare della Napoli delle cartoline, ma si recò
nei vicoli scuri e fetidi dei quartieri popolari per descrivere la
vita e i comportamenti dei suoi abitanti. Non incolpò i napoletani
per il loro modo di essere, ma li giustificò, li comprese, cercò di
spiegare il perché della loro condizione e di quello che facevano
per vivere (o meglio sopravvivere) in una delle città italiane più
dimenticate dal governo del tempo.
Le prime opere di Matilde Serao si collocano
nella corrente del verismo meridionale. Nelle sue pagine la Serao
rievoca figure e momenti della povera vita nella città partenopea,
parlando del carattere dei suoi abitanti e delle loro abitudini,
specie delle donne. Nell’opera Il ventre di Napoli, la Serao
svolge una vera e propria inchiesta giornalistica sui malesseri della
città denunciandoli uno per uno. È come se la scrittrice
accompagnasse gli uomini e le donne nelle loro giornate, quando vanno
a lavorare, quando mangiano o al contrario quando muoiono di fame,
quando soffrono, quando stanno a casa, nei bassifondi della città.
Non li critica, anzi li comprende e li giustifica, cercando di far
capire il perché delle loro condizioni di vita e il perché della
loro povertà. I poveri (la maggior parte della città), lavorano
tanto, fino a dodici ore al giorno, ma con paghe bassissime. È una
storia che va avanti da generazioni e generazioni; i napoletani sono
sempre stati sfruttati dai nobili, che li trattavano come schiavi. E
in queste povere condizioni di vita chi stava peggio erano le donne,
costrette a fare mille sacrifici: a loro la Serao guarda con
particolare compassione.
Non vedendo all’orizzonte possibilità concrete di miglioramento
del loro triste presente ecco allora che i napoletani alimentano una
speranza irrazionale nella fortuna che all’improvviso avrebbe
potuto sorridere loro. In che modo? Per mezzo del lotto. Tutto ciò
che avveniva, tutti i fatti della vita quotidiana e tutti i sogni si
traducevano per i napoletani in numeri da giocare al lotto, in
sequenze magiche di numeri che sarebbero diventati ambi e terne
vincenti al lotto.
Matilde Serao rivolge il suo sguardo umano e comprensivo alla gente
di Napoli e ne denuncia con forza le sofferenze. Esorta il governo e
tutte le istituzioni a compiere il loro lavoro qui come lo compiono
nelle altre città.
Al primo ministro De Pretis ella ricorda che non basta fare nuove
strade, buttando giù vecchi e luridi quartieri, ma deve invece
interrogarsi sulle ragioni del malessere di Napoli e dei napoletani.
Bisognava che il governo conoscesse a fondo Napoli, specialmente i
bassifondi, per poter fare di questa una città migliore. Non bastava
conoscere il numero degli abitanti, il numero dei morti o il numero
dei poveri, ma bisognava sapere il perché della situazione di
Napoli.
La Serao descrive i quartieri popolari, le strade strette, ognuna
caratterizzata da un odore diverso a seconda dei mestieri che lì
venivano praticati. Napoli è il paese in cui gli artigiani, i
muratori, i tipografi e tutti gli altri lavoratori vengono pagati di
meno. Per dodici ore di lavoro vengono pagati pochissimo: appena 90
centesimi con cui provare a sfamare la famiglia. Eppure a Napoli
vengono prodotti i migliori mobili, le migliori scarpe e i migliori
vestiti, ma questo alla città non viene riconosciuto e il lavoro non
viene valorizzato.
Lo sguardo attento ed indagatore della Serao si posa anche sulle
abitudini alimentari dei napoletani. Al poco che hanno a
disposizione per sfamarsi popolani e scugnizzi aggiungono molta
fantasia: i quartieri sono pieni di botteghe e venditori ambulanti
che propongono pesci fritti, panzarotti, olive salate, castagne lesse
e lupini. Per i vicoli le grida si susseguono, gli inviti a comprare
la propria merce si sprecano. Cibo preferito dal popolo è ovviamente
la pizza, un tipo di pane schiacciato su cui si metteva quello che si
aveva al momento: un pomodoro o un’alice salata, qualche oliva o un
pezzetto di formaggio. La pizza a Napoli era dunque uno tra i più
semplici modi per sfamarsi, mentre oggi nella dieta attuale è vista
in modo molto diverso: è qualcosa che si ci concede una volta ogni
tanto, perché oggi disponiamo di tanti altri cibi. Come tante altre
cose, anche la pizza è stata oggi rivisitata dal consumismo e dal
benessere e snaturata: i condimenti di oggi non nascono dalla
scarsità di cibo ma al contrario dalla loro abbondanza per cui a
volte la pizza viene proposta in abbinamenti sempre più improbabili,
come ad esempio l’ananas o i fagioli.
Nelle sue opere, Matilde Serao mette tutto il suo amore per la sua
città, irritandosi per certi meccanismi che fanno ancora oggi di
Napoli una città penalizzata da scelte sbagliate e da cattive
abitudini private e pubbliche. Il grido di dolore e la rivendicazione
di dignità della Serao per l’umanità sofferente dei bassi e,
soprattutto, per le donne di Napoli, è di una profondità toccante e
di una modernità impressionante. Se questo grido fosse stato
ascoltato subito, tanti problemi che ancora oggi affliggono quella
città sarebbero soltanto un lontano ricordo.
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