Il premio Mogensen-Bruno è instituito dalla Dotoressa Else Mogensen in collaborazione con la famiglia Bruno, perché è importante leggere e conoscere bene quello gli scrittori e le scrittrici del nostro paese hanno scritto e scrivevano perché il loro modo di pensare è anche parte del nostro patrimonio, il loro ambiente è anche il nostro. L'identità di Bruno si formò ad Ascea mentre cresceva qui, e leggendo le sue opere, si riconoscono emozioni comuni e modi di pensare che sono stati distillati da una grande mente.

Francesco Bruno

Francesco Bruno
Nato ad Ascea nel 1899, Francesco Bruno era uno dei più importanti e famosi giornalisti e critici letterari di Novecento. Bruno ha scritto narrative con relazione ad Ascea e Cilento, però sopratutto ha scritto molto sulla cultura meridionale con le radici di Elea/Velia, e lui ha tracciato la nostra cultura dall'antichità via Giambattista Vico e il grande scolaro di lingua e letteratura italiana, Francesco De Sanctis, a Benedetto Croce. Ha scritto di Alfonso Gatto, un poeta favorito da molti cilentani, e sulle opere di molti altri scrittori e personalitè letterari del mezzogiorno.

fredag den 20. juli 2018

PREMIO MOGENSEN-BRUNO – 9^ EDIZIONE 2018

Gli studenti dovranno comporre un testo sul tema: “La cultura meridionale a Napoli e Salerno nella prima metà del Novecento”; bibliografia 1) Elio Bruno: Letteratura a Napoli: dal Rinascimento al Novecento, Guida, e 2) Francesco Bruno, Lettera da Salerno, Plectica. Gli studenti sono anche liberi di consultare e trovare ispirazione per l'articolo in opere di Francesco Bruno e di Else Mogensen.




Temi vincitori 2018


La cultura meridionale a Napoli e Salerno nella prima metà del Novecento.

DOMENICO CIOCIANO

1° Classificato
Chi ha detto che si vive una volta sola? Confondiamo l’oblio con la morte”

Chissà se Francesco Bruno, autore di questa citazione, avrebbe mai immaginato di diventare proprio lui “immortale”? Questo non ci è dato sapere. Sappiamo però, che egli vive e rivive una, mille, infinite volte attraverso i suoi testi, le sue poesie e i suoi libri che ancora oggi, a trentasei anni dalla sua morte, stimolano la nostra fantasia, toccano i nostri cuori e invitano a riflettere. La sua “arte” ha caratterizzato la cultura meridionale dal primo Novecento in una Napoli che aveva vissuto il dramma del primo conflitto mondiale con il conseguente dopoguerra difficile con amarezze e delusioni, con l’incomprensibile tragedia della spagnola e masse contadine impoverite dall’inflazione, con il triste esodo dell’emigrazione. Poi la dittatura dove il popolo era costretto a soffrire in silenzio i colpi bassi del potere, ma diventa protagonista delle famose Quattro Giornate di Napoli dove il giovanissimo Gennarino di appena dodici anni perde la vita in nome della Libertà e Giustizia. Nei testi letti Letteratura a Napoli dal Rinascimento al Novecento, Dentro Napoli, F. Bruno e la letteratura meridionale si evince che Napoli è un vero e proprio crocevia della vita e della cultura italiana, luogo della lacerazione e della violenza, ma anche della speranza; da Napoli si vuole fuggire, ma a Napoli si vuole ritornare.
La prima che sicuramente pote’ intuire le reali potenzialità del piccolo Francesco, fu la sua insegnante della scuola primaria: Elodie. Fu lei a spronarlo e ad avvicinarlo al mondo del giornalismo leggendogli anche gli articoli della rivista Diritti e Bruno stesso, dopo una serie di fortunate combinazioni, ne divenne stimato collaboratore con i suoi articoli acuti, intelligenti e assai profondi. Indimenticabile la sua critica letteraria sul romanzo Qualcuno bussa alla porta dell’allora sconosciuta Elsa Morante. La critica fu positiva … D’altronde, come non riconoscere alla Morante il suo indubbio, spettacolare talento?
Il talento non mancava di certo neanche a Francesco Bruno che, è proprio il caso di dirlo, aveva una marcia in più perchè trasferitosi a Salerno, trovò quasi da subito spazio nei gruppi di giovani intellettuali pubblicando il suo primo libro, a soli venticinque anni e la sua passione per il giornalismo lo portò a collaborare con varie testate giornalistiche. Finalmente arrivava un nuovo “talento” capace di rivoluzionare l’ambiente culturale salernitano arrivando addirittura a dirigere un settimanale di politica, cultura e attualità, chiamato “Il Progresso”. E mai fu nome più azzeccato. Infatti, le sue idee erano “progressiste”, la cultura doveva essere il punto di partenza per la risoluzione di tanti problemi che martoriavano il Sud. Non a caso Francesco Bruno ideò una rubrica di corrispondenza con i lettori e la firmò con lo pseudonimo di ‘Mirabeau’ che solo in pochi avrebbero saputo collegare ad Apollinaire. Inoltre iniziò ad usare il formato tabloid e introdusse la vignetta. Per l’Italia fu una rarità assoluta utilizzata, inutile dirlo, fin nei tempi attuali. Negli anni successivi, in una città che ad immaginarla oggi sembrava quasi magica, Salerno era la cornice di un brulicante via vai di giovani talentuosi. Bruno fu capace, con una certezza invidiabile, di individuare i più promettenti. Quando, infatti, fu avvicinato dal poeta Alfonso Gatto, per una consulenza e valutazione dei suoi lavori, Bruno comprese subito di trovarsi di fronte ad un’artista davvero speciale. Ci fu un bel legame duraturo tra questi. Infatti, nel corso della vita, si incrociarono più volte e la stima reciproca rimase immutata. Forse perché fra amanti della letteratura e poesia ci si capisce così, senza troppe parole. Nonostante i tanti movimenti intellettuali salernitani, che Bruno trovò estremamente stimolanti, egli decise di trasferirsi a Napoli per un lavoro presso un quotidiano. Salerno però gli rimase nel cuore, come tutti i grandi amori.
A Napoli la sua carriera come critico, giornalista decollò. Scriveva per ‘Il Mattino’, ‘Il Giorno’ e tanti altri quotidiani. Restò però sempre umile, “alla mano” e disponibile verso tutti. Tornava spesso ad Ascea e varie sono le sue opere dedicate proprio al suo paese natio. È d’obbligo menzionarne una, Paese di eriche e ginestre, poiché si tratta della sua ultima opera. Per comprendere a pieno il movimento artistico e letterario che Francesco Bruno seppe catturare su foglio con maestria nella sua raccolta La Scapigliatura napoletana e meridionale, è d’obbligo evidenziare il suo talento perché ha saputo rappresentare in modo affascinante il piccolo mondo parallelo degli artisti che si raccoglievano attorno a lui. È affascinante lo scambio di idee, la lettura collettiva, la definizione dell’ispirazione che ci può essere stata solo tra persone che condividono una passione talmente arguta da riempire non solo la mente, ma anche il cuore e forse persino l’anima. Ed è così la Napoli di Francesco Bruno: pulsante, bizzarra, magica e piena zeppa di artisti. Lo scrittore afferma nell’introduzione del suo libro che spesso incontra gli scrittori del suo Sud che sembravano avvolti in un “alone favoloso e leggendario.” Non è semplicemente sublime questa immagine che Bruno ha saputo trasmettere? Quanto amore per questo microcosmo artistico! Quanta passione per la sua terra, tanto da diventare lui stesso un punto di riferimento per tanti artisti. Volendo ripercorrere le tappe della letteratura napoletana attraverso le profonde osservazioni di Bruno, è giusto soffermarsi su Benedetto Croce, trasferitosi a Napoli, dove l’impatto con la città fu favorevole e ben presto casa sua fu frequentata da giornalisti, pittori, poeti, archivisti, antiquari e librai. E certo non poteva mancare Francesco Bruno. L’incontro con Croce fu di grande valore intellettuale per entrambi, ma Bruno seppe rimanere sempre obiettivo ed equilibrato nei suoi giudizi sul filosofo. Infatti, nei confronti della letteratura napoletana Croce diede un contributo notevole e F. Bruno l’ha sempre saputo riconoscere. Un altro letterato vissuto a Napoli fu Fausto Nicolini che svolse la sua attività letteraria e giornalistica nella città partenopea, ma a differenza di Croce, che si concentrava sulla filosofia dello spirito, Nicolini si rivelò un biografo drammatico. Sapeva catturare ampi affreschi storici e cercava di dare risalto ad aspetti biografici. Francesco Bruno sensibile e profondo quando raccontò del suo incontro personale con Nicolini si commosse perchè lo trovò in una grande stanza al freddo, tra carte e fogli, coperto da un basco nero. Bruno lo paragonò a Sainte-Beuve, avendolo visto in fotografia in atteggiamento e posa simile a Nicolini. È d’obbligo citare anche Gino Doria che ha indirizzato il suo talento nella descrizione, nella contemplazione della sua città: Napoli. In molti dei suoi scritti la città funge da protagonista. Come Croce, anche egli sguazza nelle tradizioni napoletane, descrivendone con misura, cultura e civiltà gli aspetti più vivi. E Benedetto Croce, da grande maestro ha saputo insegnare tutto questo ai suoi allievi, di cui anche Doria fece parte. Gli allievi probabilmente si sentirono molto vicini al loro maestro perché, come loro, lui era un autodidatta. Insegnava attraverso le frasi più belle, quanto Napoli potesse essere vecchia e sempre nuova, pensiero che fu condiviso anche da Francesco Bruno. Il capitolo non si può chiudere senza soffermarsi brevemente anche su Alberto Consiglio, Edmondo Cione e Lorenzo Giusso. Tutti e tre erano in qualche modo legati al pensiero crociano. Il più apprezzato da Bruno però fu proprio Giusso, che aveva profonda conoscenza delle lingue straniere. Questo gli fu di grande aiuto nello studio e nella traduzione di saggi di autori vicini al suo pensiero.
Napoli non è solo questo, ma anche la musica napoletana è cultura, arte, poesia, storia le cui origini risalgono al tredicesimo secolo quando gli studenti dell’università Federico II creavano delle ballate che si ispiravano alle differenze tra le bellezze del paesaggio e le difficoltà della vita. Poi, dopo secoli di splendide canzoni e ballate ci fu una svolta: la propagazione ed il successo della musica napoletana. Questo cambiamento avvenne sin dagli inizi del Novecento e cantanti come Renato Carosone e Roberto Murolo furono i maggiori interpreti di questo genere musicale. A cavallo del primo Novecento comparve la figura di Enrico Caruso, uno dei tenori più famosi. Egli proprio come Murolo e Carosone seppe comporre canzoni che ancora oggi si cantano fra le vie di Napoli e forse di tutto il mondo. Dietro le opere di costoro si cela un difficilissimo lavoro che consiste nel coniugare il testo della canzone alla musicalità delle parole spesso espresse in dialetto per avere una maggiore autenticità. Proprio per questo si può dire che ci fu una fusione tra la canzone napoletana e la letteratura del meridione. Per me la musica napoletana è vita… troviamo in essa un miscuglio fra quotidianità, poesia, sentimento, ma anche storia come nella canzone “Munasterio e Santa Chiara” dove emerge il desiderio di tornare a Napoli dopo la guerra e allo stesso tempo si percepisce la paura di trovare una città distrutta dai bombardamenti. Però non fu solo la canzone napoletana a caratterizzare la cultura meridionale, ma ci furono anche teatro e cinema che svolsero un ruolo fondamentale nel raccontare storie e magari lanciare un messaggio di originalità. Edoardo De Filippo fu uno degli attori più importanti, ma anche uno degli artisti più incisivi del Novecento conosciuto in tutto il mondo per le sue rappresentazioni teatrali e per la sua innata bravura. Le sue opere celebri Natale in casa Cupiello e Filomena Marturano in cui De Filippo fu davvero un maestro perché con maestria ed ironia ha saputo trasmettere la quotidianità della sua bella Napoli. E tornando a F. Bruno, questi come lui ha rivolto i suoi ultimi pensieri ad Ascea con il testo Paese di eriche e ginestre.
Ascea rivolge eternamente il suo profondo rispetto ad un uomo che ha reso e rende tuttora i suoi compaesani orgogliosi di condividere le origini. Doveroso è stato dare il suo nome alla scuola primaria di Ascea. L’oblìo non ci sarà mai, finché gli alunni ne conosceranno la meravigliosa storia. “Così lo voglio ricordare, in bilico tra il cielo e la terra a sfiorare la macchia mediterranea a lui tanto cara”.




GIUSEPPE ANTONIO BEL FIORE



2 ° Classificato

Introduzione. Se la bellezza dei luoghi affascina viaggiatori e viandanti, è indiscutibilmente vero che riesce a far vibrare la sensibilità dell’animo di un artista e poeta ed a creare le giuste premesse per un moto ispirativo che generi l’opera, l’opera d’arte. Il luogo si fa musa ispiratrice, si fa soggetto e depositario del culto della bellezza del moto nuovo e fecondo che saluta ogni rappresentazione artistica sul nascere, prima che si diffonda nei cuori.
I paesaggi campani assumono talvolta una bellezza radiosa, nella luminosità assolata di giornate afose e rumorose, altre volte invece prendono una bellezza argentata, silenziosa, solitaria. La notte, i cieli stellati, il silenzioso rumoreggiare del mare placido e sonnecchiante affascinarono Gabriele D’Annunzio che osservando la notte stellata appesa sui profili del golfo salernitano, scrisse di Salerno, versi bellissimi e dolci in cui i profili scuri dei monti che scendono dolcemente a tuffarsi nel mare, lo definì lunato golfo, generando l’immagine evocativa di una bellezza illuminata dalla luce lunare. Bellezza decadente, artistica, poetica.
L’arte ha soggiornato e soggiorna a Salerno e Napoli e lo fa respirando la bellezza del paesaggio, l’anima popolare che vi risiede, che si condensa nelle tradizioni, nelle leggende, nelle quotidiane realtà , talvolta superiori all’immaginazione.
Le ragioni di arte e cultura nel primo Novecento. Il primo novecento fu periodo storico e sociale di grandi cambiamenti. Le innovazione scientifiche e tecniche migliorarono le condizioni di vita e lavoro e generarono una possente capacità di trasformazione. Non fu solo periodo di razionalismo e progresso, ma contestualmente fu anche periodo in cui le conquiste generarono ansie e dubbi, aprendo nuovi percorsi alla sensibilità e dunque alle ispirazioni artistico-culturale. Vi furono opere realistiche e naturalistiche, tendenti a rappresentare il vero, il popolare, l’emarginato, il misero, che proseguirono le idee ed i criteri culturali affermatisi alla fine del secolo precedente, ma vi furono anche aspetti tesi a cercare e riprodurre una realtà apparente, interiore, irrazionale, in cui l’istinto diventa prevalente sulla ragione. Insomma un rapido ed affollato susseguirsi di movimenti, correnti artistiche, che propongono antico e moderno in un variegata composizione di società e storia.
Varietà che genera contrasti; contrasti che generano trasformazione, spesso veloce, incontrollata, disordinata; disordine che genera conflitti; conflitti che generano disgregazione; disgregazione che genera pessimismo; pessimismo che genera riflessione sulla interiorità ed il destino dell’uomo nel mondo.
Il territorio campano, materia d’arte e soggetto di cultura. Salerno e la sua provincia hanno storia millenaria. L’arte e la cultura del primo Novecento, se considerate come puri atti di vita, vera essenza di un’opera che è opera d’arte, realizzano un connubio tra sentimento e territorio particolarmente intenso. Il bello ed il vero nell’arte e nella cultura si trovano in molti opere di artisti italiani che hanno ricevuto ispirazione dai luoghi campani, salernitani e napoletani in particolare e fin dall’antichità.
Nel periodo d’inizio Novecento, tuttavia, gli occhi di Umberto Saba, una delle più alte espressioni poetiche della letteratura italiana, osservarono Salerno ed i suoi luoghi. infatti egli svolse servizio di leva in città nel periodo compreso tra l’aprile del 1907 ed il settembre del 1908. Un anno intenso nel quale trasse ispirazione per comporre “Versi militari”, opera che appartiene al patrimonio morale della nostra cultura per l’alto grido di dolore contro la guerra, contro tutte le guerre.
Come già ho affermato fu anche Gabriele D’Annunzio ammaliato dalla bellezza del golfo salernitano, protagonista nella sua opera “Merope”, mitologicamente una delle stelle meno luminose figlia di Atlante, condannata a minor luce per aver ceduto al cuore ed essersi innamorata di un mortale. D’Annunzio in questa opera richiama storie e leggende salernitane e narra gli anni meravigliosi attraversati dalla città in epoca longobarda e normanna.
Salerno è culla, per nascita, di una delle voci più intense e sofferte dell’ermetismo italiano, stagione europea della nostra poesia, che si eleva oltre confine a descrivere il malessere dell’uomo universale e della sua impossibilità di dialogare con sè stesso e con la realtà circostante. Alfonso Gatto, salernitano, è poeta ermetico che alla città dedica versi memorabili condensati nella nota espressione più volte citata….”Salerno rima d’inverno, Salerno rima d’eterno….”
L’alba di questo secolo difficile e complesso saluta anche i lidi napoletani, che ispirano tra Ottocento e Novecento molti autori locali che danno vita al filone della poesia e dei testi dialettali poi diventati anche complementi testuali di celebri romanze, dando origine alla celeberrima canzone napoletana. Sono infatti questi gli anni nei quali vengono composti brani a firma di E.A. Mario, Salvatore Di giacomo, Libero Bovio, Roberto Murolo; più che semplici testi deputati a seguire la melodia musicale, sono in realtà poesie ispirate all’amore, ai sentimenti umani, alla quotidianità.
In questi anni anche Eduardo De Filippo e Totò al principio delle grandi carriere percorse nel teatro e nel cinema, composero testi che si ispiravano alla bellezza dei luoghi, ai momenti di cultura e tradizione mescolati alla quotidianità soprattutto dei ceti popolari.
Tra gli autori attuali Luciano de Crescenzo ed Erri De Luca attingono ai vicoli ed al paesaggio per comporre testi che pervasi da ironia, umorismo e sensibilità, realizzano suggestivi affreschi narrativi.
Una esperienza significativa: Matilde Serao. E’ questo il tempo nel quale si afferma il ruolo, la figura di Matilde Serao.
Giornalista e scrittrice, nacque a Patrasso nel 1856. A soli quindici anni, priva di ogni titolo di studio accademico, sostenne il colloquio di ingresso in qualità di uditrice presso la Scuola Normale “ Eleonora Pimentel Fonseca “. Dopo un anno Matilde abiurò la confessione ortodossa per quella cattolica e cominciò a scrivere brevi articoli destinati all’appendice del Giornale di Napoli, per poi cominciare a comporre novelle pubblicate, a 22 anni compiuti, con lo pseudonimo di “Tuffolina“. La prima novella editata fu “Opale“ per le pagine di fondo del quotidiano “Il Mattino“.
Ciquita è lo pseudonimo che Matilde Serao utilizzò a partire dai ventisei anni, quando lasciò Napoli per recarsi a Roma dove cominciò a comporre opere di vario tipo ed articoli, presa da una frenesia del comporre e dello scrivere che le consentì di assumere un ruolo di primo piano nei salotti mondani della capitale, diventano un volto noto conosciuto anche per il suo carattere, la sua fama crescente di donna determinata ed indipendente, che suscitava ora curiosità ora ammirazione.
Al principio, tuttavia, se conquistò fama nei salotti mondani, non ebbe subito i favori degli ambienti letterari e dei critici in particolare; basti pensare alle sorti del suo primo libro, che sebbene la rese famosa tra un pubblico crescente di appassionati non ebbe recensioni critiche favorevoli, in particolare di Edoardo Scarfoglio.
Era un suggestivo preludio che nessuno immaginava doveva condurli a vivere una intensa ed appassionata storia d’amore, culminata col matrimonio e la nascita di quattro figli: Antonio, i gemelli Carlo e Paolo, Michele.
Scarfoglio, da tempo, accarezzava l’idea di promuovere la fondazione di un proprio giornale quotidiano, finalizzata a promuovere la crescita culturale ed artistica. Il suo rapporto e la complicità con la moglie Matilde doveva favorire questo desiderio e realizzarlo. Nel 1885 fondarono, infatti, il “Corriere di Roma“ che non ebbe vasto seguito e visse un duro periodo di indebitamento finanziario. Questa esperienza li indusse ad accettare subito la proposta del banchiere livornese Matteo Schilizzi che propose alla coppia di tornare a Napoli e continuare il loro connubio giornalistico nella avventura della propria testata editoriale. I due accolsero la richiesta ed il banchiere si accollò le spese debitorie del “Corriere di Roma“ che così riuscì, il 14 novembre 1887, a cessare le pubblicazioni senza conseguenze giudiziarie per entrambi e con una operazione editoriale con cui venne fusa tale testata giornalistica al “Corriere del Mattino“, si riuscì a dare vita ad una nuova testata editoriale, “Il Corriere di Napoli”, il cui primo numero venne diffuso il 1° gennaio 1888. Dopo tre anni Scarfoglio e la Serao lasciarono la testata per fondare un nuovo giornale, a cui venne dato il nome de “Il Mattino“ il cui primo numero venne pubblicato il 16 marzo 1892, dando inizio alla favola editoriale della principale testata giornalistica napoletana.
La storia d’amore tra Scarfoglio e Matilde Serao doveva concludersi a seguito del tradimento dell’uomo, scoperto e non perdonato. Matilde si consolò nel ruolo di madre, accogliendo con sé una bambina di genitori ignoti a cui diede il nome di Paolina. Anche per difficoltà finanziarie del giornale abbandonò ‘‘Il Mattino’’, nel 1900, durante una inchiesta che sconvolse la testata. Intanto aveva cominciato a curare una rubrica letteraria, culturale, ed artistica che venne pubblicata per 41 anni ininterrotti.
Intanto nel destino di Matilde ritornava l’amore. Ancora una volta per un letterato e giornalista. Giuseppe Natale. Con lui Matilde Serao tornerà a dirigere un nuovo quotidiano, “Il Giorno“, che da subito si pose in concorrenza con “Il Mattino“.
Alla morte di Scarfoglio, col quale ormai non viveva più, Matilde Serao potè sposare Giuseppe Natale che morirà al principio degli anni Venti, anni nei quali, pur se in solitudine, la Serao proseguì nella sua attività letteraria e giornalistica svolte con accesa passione.
Non è un caso che Matilde Serao morì seduta alla sua scrivania, a Napoli, nel 1927.
Opere e pensiero di Matilde Serao. Le opere di Matilde Serao che ottennero i primi apprezzamenti furono la raccolta di bozzetti “Dal Vero“ ed il romanzo “Cuore infermo“ che suggellarono la sua adesione, quasi spontanea, alla poetica del verismo, di cui interpretò profondamente e completamente lo stile e la poetica letteraria. Le novelle ed i bozzetti erano tipologie di opere letterarie che meglio si addicevano allo stile ed al tessuto narrativo della Serao, rispetto ai più estesi romanzi, specialmente per la sua tendenza a descrivere i sentimenti, le passioni, gli squilibri personali, le descrizioni degli ambienti e delle circostanze, dei personaggi, che conservano un carattere secco, diretto, immediato, da articolo giornalistico più che da testo narrativo di largo respiro.
Donna forte, determinata, la Serao ha grande interesse e forte predisposizione per la caratterizzazione dei personaggi femminili, descritte come appartenenti ad ambiti e ceti diversi, come ad esempio nell’opera “Il ventre di Napoli“, in cui vividamente e partecipativamente la Serao descrive con stile veristico e senza sovrapposizioni o schermi mistificatori, la dura realtà dei ceti più umili, in particolare dei bambini appartenenti ad essi, descritti al cospetto della difficoltà del vivere che si respira nei vicoli napoletani, in modo endemico e drammatico.
Matilde non è autrice distratta o distaccata dalle opere e dai suoi personaggi. La sua compassione, il suo sentimento di comunanza e partecipazione agli eventi della narrazione è piena e totale. Così diventa amorevole interprete delle sofferenze e delle speranze del popolo napoletano che ama e descrive. Devota al giornalismo, prima che alla prosa, la Serao confessa che “dal primo giorno che ho scritto, io non ho masi voluto né saputo essere altro che una fedele ed umile cronista della mia memoria”. Una confessione che esprime appieno il senso della sua esperienza letteraria, e nel contempo, il suo amorevole credo al giornalismo militante. Sensazioni queste che non abbandonerà mai, per nessun amore e per nessuna diversa vocazione.
E’ cronismo, è amorevole racconto giornalistico della realtà, sebbene condita dallo scopo narrativo che si eleva a rango letterario, ciò che la porta a comporre un'altra celebre ed apprezzata sua opera. “Terno secco” radiografia di alta poesia verista con cui, in racconto mirabile, descrive la rassegnazione dei ceti più umili e poveri e della piccola borghesia cittadina che affidano le superstiti speranza di una vita migliore e senza stenti, alla fortuna nel Gioco del Lotto. Da questo racconto la Serao trasse anche materia per un altro celebre scritto, il romanzo “Il paese della cuccagna“. Segnatamente affreschi di vita quotidiana sono le altre due opere “Scuola serale femminile” e “Telegrafi dello Stato“, che pure riscossero un positivo apprezzamento regalando alla memoria comune due significativi ritratti di vita quotidiana realistica, pur nella sua lineare semplicità.
In tal senso è vero capolavoro il racconto lungo “Le virtù di Checchina“ apoteosi oggettiva delle difficoltà e dei contrasti esistenti tra la squallore miserevole della piccola borghesia che anela, invece, al sogno di una vita lussuosa oltremisura. Epico è il personaggio che la Serao descrive, rendendolo protagonista di naturalezza e verità.
Diversa la ispirazione che ha prodotto i romanzi “La conquista di Roma“ (ispirato alle esperienza di vita parlamentare) e “Vita ed avventure di Riccardo Soanna” in cui la Serao strappa la maschera ad un certo tipo di giornalismo corrotto.
Nessun tema è precluso alla fantasia ed all’impegno della Serao; basti citare l’opera postuma di un testo incompiuto “L’ebbrezza, il servaggio, la morte“ in cui si confronta con la visione femminile della dolorosa tematica dell’adulterio, nella Roma tardo-ottocentesca dannunziana.
La sua vocazione giornalistica che rendeva la realtà un terreno di osservazione per comprendere l’evoluzione dei costumi e della società, viene dalla Serao trasferita nelle pagine delle sue opere, agganciando così tematiche poetiche e suggestive alla fotografia di una realtà spesso di sofferenza e dramma, che celebra lo scopo degli autori veristi. A cui per passione spontanea la Serao viene accostata nella valutazione della sua vasta produzione letteraria.
Animo rivoluzionario, innovativo, forte, di spessore culturale notevole tanto da qualificare una intera esistenza, la Serao è una delle figure femminili più affascinanti del panorama artistico culturale nazionale ed internazionale del primo Novecento, e la considerazione che la questione femminile era ben lontana dall’essere risolta ed affrontata rende ancora più epica la sua esperienza di donna, giornalista e letterata. La conferma piena che la forza del cuore e delle idee, insieme, rendono la vita unica e rara ed ogni associata esperienza di arte e cultura capace di scandire i ritmi del tempo e della storia.




BENEDETTA DE LUCA



3 ° Classificato

Nella prima metà del ‘900 le differenze socioeconomiche tra il Sud e il resto d'Italia rimanevano ancora molto accentuate. Lo svantaggio accumulato dalle regioni del Sud in rapporto a quelle del Centro e del Nord era ancora notevole ed era sottolineato dagli indicatori economici, culturali e civili dello sviluppo. All'inizio del Novecento i governi presieduti da Giovanni Giolitti furono i primi ad approvare leggi straordinarie con cui furono finanziati grandi lavori pubblici in Puglia, a Napoli e in Basilicata, ma che tuttavia non si rivelarono efficaci alla prova dei fatti; contemporaneamente, l'emigrazione di milioni di contadini appariva come la reazione alla miseria delle campagne meridionali. La politica giolittiana, basata sulle leggi speciali e sulle agevolazioni pubbliche, inaugurava tuttavia una modalità di intervento dello stato destinata a riprodursi nei decenni a venire, con risultati discutibili. A Napoli, in particolare, la politica di Giolitti si proponeva di imporre un’industrializzazione forzata per cercare di rimediare alla regressione post unitaria subìta dall’antica capitale del Mezzogiorno, per risollevarla dalle arretratezze messe in evidenza dalla questione meridionale e agganciarla al percorso comune ed unitario dell’Italia intera. Per sopravvivere, dunque, l’economia napoletana, comincia ad aver bisogno dei capitali settentrionali, degli investimenti di aziende del Nord, della nascita di nuovi centri industrializzati, come la zona di Bagnoli, a nord di Napoli
Nonostante il divario economico e i grandi problemi sociali, nel Meridione ferveva la vita culturale. Napoli è un importante centro culturale ed artistico e ciò è evidenziato fortemente anche dalle pagine di numerosi quotidiani e periodici che i giovani intellettuali dell’epoca utilizzavano per confrontarsi, pubblicando testi di varia natura, dalle novelle, ai romanzi a puntate, ai testi teatrali, alle poesie e alle canzoni.
Una personalità di spicco nella cultura meridionale a Napoli e Salerno fu senz’altro Francesco Bruno. Questo intellettuale quasi unificò idealmente Salerno e Napoli perché visse in entrambe le città, partecipando con passione al dibattito culturale che vi si svolgeva. Nato ad Ascea nel 1899, Francesco Bruno fu poeta, giornalista e narratore. Bruno fu anche un critico letterario acuto e lungimirante: fu il primo a parlare in Italia di un autore come Boris Pasternak, il primo a leggere le liriche del grande poeta salernitano Alfonso Gatto ed il primo letterato a dedicare una monografia a Grazia Deledda e al poeta francese Paul Valéry.
Come narratore Francesco Bruno scrive opere in cui denuncia le povere condizioni di vita del Mezzogiorno d’Italia. Il Sud fu per lui fonte di ispirazione e di studio, tanto da essere considerato uno dei maggiori esponenti della cultura meridionale. Il suo ultimo romanzo, Paese di eriche e ginestre, pubblicato nel 1999 dopo la sua morte è ambientato a Velina (nome di fantasia che in realtà indica la natìa Ascea). In questo romanzo, Bruno rivisita leggende, miti e tradizioni popolari che ormai vanno scomparendo, narrando di un mondo arcaico e bucolico e della natura ancora incontaminata. Le vicende degli abitanti di Velina, contadini con le mani callose, pastori di capre, pescatori bruciati dal sole, donne che infornano il pane e cantano alle processioni, sembrano proiettarsi in una sorta di età mitologica, al di fuori del tempo e della storia.
Il romanzo Paese di eriche e ginestre, chiude il cerchio della vicenda artistica di Francesco Bruno perché anche la sua prima opera, la raccolta di racconti intitolata Frate Gesù, pubblicata nel 1924, è ambientata ad Ascea.
La vita di Francesco Bruno si incrociò anche con quella di un’altra grande figura della cultura meridionale nei primi del Novecento, Matilde Serao, da cui fu invitato a collaborare al quotidiano “Il Giorno”, diretto dalla scrittrice.
La Serao era una donna determinata, ebbe molti riconoscimenti letterari da parte dei letterati più famosi del tempo, tra i quali Gabriele D’Annunzio e Benedetto Croce. Donna colta e istruita, non disdegnava Napoli e il suo popolo, anzi lo amava, e cercava di descrivere la sua città per denunciare tutte le sofferenze dei cittadini a causa della difficile situazione socio-economica della città.
Fino ad allora tutti coloro che avevano scritto di Napoli avevano messo in evidenza solo gli aspetti positivi. Matilde Serao, invece, non si limitò a parlare della Napoli delle cartoline, ma si recò nei vicoli scuri e fetidi dei quartieri popolari per descrivere la vita e i comportamenti dei suoi abitanti. Non incolpò i napoletani per il loro modo di essere, ma li giustificò, li comprese, cercò di spiegare il perché della loro condizione e di quello che facevano per vivere (o meglio sopravvivere) in una delle città italiane più dimenticate dal governo del tempo.
Le prime opere di Matilde Serao si collocano nella corrente del verismo meridionale. Nelle sue pagine la Serao rievoca figure e momenti della povera vita nella città partenopea, parlando del carattere dei suoi abitanti e delle loro abitudini, specie delle donne. Nell’opera Il ventre di Napoli, la Serao svolge una vera e propria inchiesta giornalistica sui malesseri della città denunciandoli uno per uno. È come se la scrittrice accompagnasse gli uomini e le donne nelle loro giornate, quando vanno a lavorare, quando mangiano o al contrario quando muoiono di fame, quando soffrono, quando stanno a casa, nei bassifondi della città. Non li critica, anzi li comprende e li giustifica, cercando di far capire il perché delle loro condizioni di vita e il perché della loro povertà. I poveri (la maggior parte della città), lavorano tanto, fino a dodici ore al giorno, ma con paghe bassissime. È una storia che va avanti da generazioni e generazioni; i napoletani sono sempre stati sfruttati dai nobili, che li trattavano come schiavi. E in queste povere condizioni di vita chi stava peggio erano le donne, costrette a fare mille sacrifici: a loro la Serao guarda con particolare compassione.
Non vedendo all’orizzonte possibilità concrete di miglioramento del loro triste presente ecco allora che i napoletani alimentano una speranza irrazionale nella fortuna che all’improvviso avrebbe potuto sorridere loro. In che modo? Per mezzo del lotto. Tutto ciò che avveniva, tutti i fatti della vita quotidiana e tutti i sogni si traducevano per i napoletani in numeri da giocare al lotto, in sequenze magiche di numeri che sarebbero diventati ambi e terne vincenti al lotto.
Matilde Serao rivolge il suo sguardo umano e comprensivo alla gente di Napoli e ne denuncia con forza le sofferenze. Esorta il governo e tutte le istituzioni a compiere il loro lavoro qui come lo compiono nelle altre città.
Al primo ministro De Pretis ella ricorda che non basta fare nuove strade, buttando giù vecchi e luridi quartieri, ma deve invece interrogarsi sulle ragioni del malessere di Napoli e dei napoletani. Bisognava che il governo conoscesse a fondo Napoli, specialmente i bassifondi, per poter fare di questa una città migliore. Non bastava conoscere il numero degli abitanti, il numero dei morti o il numero dei poveri, ma bisognava sapere il perché della situazione di Napoli.
La Serao descrive i quartieri popolari, le strade strette, ognuna caratterizzata da un odore diverso a seconda dei mestieri che lì venivano praticati. Napoli è il paese in cui gli artigiani, i muratori, i tipografi e tutti gli altri lavoratori vengono pagati di meno. Per dodici ore di lavoro vengono pagati pochissimo: appena 90 centesimi con cui provare a sfamare la famiglia. Eppure a Napoli vengono prodotti i migliori mobili, le migliori scarpe e i migliori vestiti, ma questo alla città non viene riconosciuto e il lavoro non viene valorizzato.
Lo sguardo attento ed indagatore della Serao si posa anche sulle abitudini alimentari dei napoletani. Al poco che hanno a disposizione per sfamarsi popolani e scugnizzi aggiungono molta fantasia: i quartieri sono pieni di botteghe e venditori ambulanti che propongono pesci fritti, panzarotti, olive salate, castagne lesse e lupini. Per i vicoli le grida si susseguono, gli inviti a comprare la propria merce si sprecano. Cibo preferito dal popolo è ovviamente la pizza, un tipo di pane schiacciato su cui si metteva quello che si aveva al momento: un pomodoro o un’alice salata, qualche oliva o un pezzetto di formaggio. La pizza a Napoli era dunque uno tra i più semplici modi per sfamarsi, mentre oggi nella dieta attuale è vista in modo molto diverso: è qualcosa che si ci concede una volta ogni tanto, perché oggi disponiamo di tanti altri cibi. Come tante altre cose, anche la pizza è stata oggi rivisitata dal consumismo e dal benessere e snaturata: i condimenti di oggi non nascono dalla scarsità di cibo ma al contrario dalla loro abbondanza per cui a volte la pizza viene proposta in abbinamenti sempre più improbabili, come ad esempio l’ananas o i fagioli.
Nelle sue opere, Matilde Serao mette tutto il suo amore per la sua città, irritandosi per certi meccanismi che fanno ancora oggi di Napoli una città penalizzata da scelte sbagliate e da cattive abitudini private e pubbliche. Il grido di dolore e la rivendicazione di dignità della Serao per l’umanità sofferente dei bassi e, soprattutto, per le donne di Napoli, è di una profondità toccante e di una modernità impressionante. Se questo grido fosse stato ascoltato subito, tanti problemi che ancora oggi affliggono quella città sarebbero soltanto un lontano ricordo.